la Marche funèbre assomiglia a uno scivolamento verso il nulla, un gesto di rassegnazione, quasi postumo rispetto al drammaL’ossatura del programma di Pollini la dichiarano i numeri di opera, che rimandano agli anni 1937-39, mentre il giovane De Maria proseguendo nel progetto integrale, per generi e titoli, approda all’universo delle tre Sonate, nutrite di idee e sorrette da un panismo convenientemente mirato. Lo dimostra, per tornare alla nostra sonata, il garbo, il pudore quasi, con cui realizza la sezione centrale dello Scherzo e quindi ne riprende la cupa veemenza. Dolorosa più che tragica, insinuante e con una gamma dinamica volutamente contenuta (il che non vuol dire meno espressiva) che designa un progetto selettivo nella distribuzione dei piani sonori è l’apertura del movimento successivo: così la Marche funèbre assomiglia a uno scivolamento verso il nulla, un gesto di rassegnazione, quasi postumo rispetto al dramma. Allo stesso modo De Maria realizza il Trio: raggelato, senza curve sonore, affidato alla nudità del canto, liberato con stranita lentezza e un’articolazione cantabile ma come criptata (ribadita con complicità dalla registrazione molto sobria e poco “profonda”).
Al contrario gli accenti-rintocchi (sforzati e ritardati) della Marcia “di” Pollini drizzano sulla pagina, fin dall’inizio, una quinta teatralissima e solenne. Il Trio si rischiara nell’ariosa delibazione melodica: il pianoforte qui trova e svela colori cangianti seppure meditati, privi di manierismi sentimentali – ovviamente – ma mossi da un’ansia interna sottile ma a tratti esplicitata, come dicono i fugaci crescendo della sezione terminale. Non meno divergente il primo tempo della Sonata: il “doppio movimento” è sentito da Pollini non come prescrizione agogica (come De Maria che lo nutre di una vertigine pianistica non diversa da quella del Presto conclusivo) ma come ispirazione per un progressivo addensamento di suono e intenzioni musicali. Anche il Grave non ha tinte tempestose ma inquietudini spettrali e un andamento quasi impettito e nobile, da polacca (per gli amanti delle misurazioni cronometriche succede così che agli oltre 5’ di De Maria corrispondono oltre 7’ di Pollini; nella Marche funèbre il rapporto era oltre 10’ contro altre 7’). Ma il cammino in parallelo potrebbe continuare. Come la consigliabile avventura chopiniana.
la Marche funèbre assomiglia a uno scivolamento verso il nulla, un gesto di rassegnazione, quasi postumo rispetto al drammaL’ossatura del programma di Pollini la dichiarano i numeri di opera, che rimandano agli anni 1937-39, mentre il giovane De Maria proseguendo nel progetto integrale, per generi e titoli, approda all’universo delle tre Sonate, nutrite di idee e sorrette da un panismo convenientemente mirato. Lo dimostra, per tornare alla nostra sonata, il garbo, il pudore quasi, con cui realizza la sezione centrale dello Scherzo e quindi ne riprende la cupa veemenza. Dolorosa più che tragica, insinuante e con una gamma dinamica volutamente contenuta (il che non vuol dire meno espressiva) che designa un progetto selettivo nella distribuzione dei piani sonori è l’apertura del movimento successivo: così la Marche funèbre assomiglia a uno scivolamento verso il nulla, un gesto di rassegnazione, quasi postumo rispetto al dramma. Allo stesso modo De Maria realizza il Trio: raggelato, senza curve sonore, affidato alla nudità del canto, liberato con stranita lentezza e un’articolazione cantabile ma come criptata (ribadita con complicità dalla registrazione molto sobria e poco “profonda”).
Al contrario gli accenti-rintocchi (sforzati e ritardati) della Marcia “di” Pollini drizzano sulla pagina, fin dall’inizio, una quinta teatralissima e solenne. Il Trio si rischiara nell’ariosa delibazione melodica: il pianoforte qui trova e svela colori cangianti seppure meditati, privi di manierismi sentimentali – ovviamente – ma mossi da un’ansia interna sottile ma a tratti esplicitata, come dicono i fugaci crescendo della sezione terminale. Non meno divergente il primo tempo della Sonata: il “doppio movimento” è sentito da Pollini non come prescrizione agogica (come De Maria che lo nutre di una vertigine pianistica non diversa da quella del Presto conclusivo) ma come ispirazione per un progressivo addensamento di suono e intenzioni musicali. Anche il Grave non ha tinte tempestose ma inquietudini spettrali e un andamento quasi impettito e nobile, da polacca (per gli amanti delle misurazioni cronometriche succede così che agli oltre 5’ di De Maria corrispondono oltre 7’ di Pollini; nella Marche funèbre il rapporto era oltre 10’ contro altre 7’). Ma il cammino in parallelo potrebbe continuare. Come la consigliabile avventura chopiniana.