La Repubblica

Pietro De Maria: rivoluzione Chopin lontano dai salotti e dal gusto antico

De Maria ne ha tolto lo zucchero senza rinunciare alla dolcezza. Vi esalta la cantabilità cristallina di matrice operistica senza però scordarsi che a sostenerla sono talvolta aggregazioni di accordi trasgressiveE’ finita l’epoca dello Chopin per signorine sentimentali, per vegliarde nostalgiche dei palpiti amorosi di gioventù. Basta con lo Chopin colonna sonora da salotto buono; damaschi, broccati, chincaglierie di gusto più o meno pessimo, candelabri, redingote e dagherrotipi che non gli appartengono più. Nel novecento, lui, compositore che più romantico non si può, si è via via smarcato dall’immagine che ne avevano offerto i suoi contemporanei ottocenteschi: così delicato, poverino, e sfortunato per giunta, morto a nemmeno quarant’anni per la tisi (la sua amante George Sand lo vezzeggiava nell’intimità chiamandolo “il mio cadaverino”), e i suoi pezzi poi, tutti così incantevoli, orecchiabili. Oggi quel Fryderyk Chopin non esiste più. Da mezzo secolo, interpreti stanno cercando di darne una lettura meno ingenua. Poiché il compositore polacco non è stato semplicemente un creatore di belle melodie, ma un rivoluzionario dell’armonia. Il pianista Pietro De Maria - veneziano di nascita, pratese per residenza, docente alla Scuola di Fiesole – è l’ultimo in ordine di tempo a offrircene un’immagine più oggettiva. Che significa sfaccettata, non distante.

De Maria ne ha tolto lo zucchero senza rinunciare alla dolcezza. Vi esalta la cantabilità cristallina di matrice operistica senza però scordarsi che a sostenerla sono talvolta aggregazioni di accordi trasgressive. In questi anni ne ha proposto l’integrale in sala da concerto, a Firenze per gli Amici della Musica, e adesso ne ha ultimato la registrazione: nove uscite, l’ultima delle quali è un cofanetto da tre CD con le 58 mazurche più Fantasia, Berceuse, Barcarola, Bolero e i quattro Rondò.

Le Mazurche ci mostrano quanto i piedi di Chopin, malgrado il trasferimento a Parigi, siano sempre rimasti ben piantati nella terra natia, e l’eco delle orchestrine contadine scordate che accompagnavano la danza abbia continuato a risuonargli incessantemente in testa.


De Maria ne ha tolto lo zucchero senza rinunciare alla dolcezza. Vi esalta la cantabilità cristallina di matrice operistica senza però scordarsi che a sostenerla sono talvolta aggregazioni di accordi trasgressiveE’ finita l’epoca dello Chopin per signorine sentimentali, per vegliarde nostalgiche dei palpiti amorosi di gioventù. Basta con lo Chopin colonna sonora da salotto buono; damaschi, broccati, chincaglierie di gusto più o meno pessimo, candelabri, redingote e dagherrotipi che non gli appartengono più. Nel novecento, lui, compositore che più romantico non si può, si è via via smarcato dall’immagine che ne avevano offerto i suoi contemporanei ottocenteschi: così delicato, poverino, e sfortunato per giunta, morto a nemmeno quarant’anni per la tisi (la sua amante George Sand lo vezzeggiava nell’intimità chiamandolo “il mio cadaverino”), e i suoi pezzi poi, tutti così incantevoli, orecchiabili. Oggi quel Fryderyk Chopin non esiste più. Da mezzo secolo, interpreti stanno cercando di darne una lettura meno ingenua. Poiché il compositore polacco non è stato semplicemente un creatore di belle melodie, ma un rivoluzionario dell’armonia. Il pianista Pietro De Maria - veneziano di nascita, pratese per residenza, docente alla Scuola di Fiesole – è l’ultimo in ordine di tempo a offrircene un’immagine più oggettiva. Che significa sfaccettata, non distante.

De Maria ne ha tolto lo zucchero senza rinunciare alla dolcezza. Vi esalta la cantabilità cristallina di matrice operistica senza però scordarsi che a sostenerla sono talvolta aggregazioni di accordi trasgressive. In questi anni ne ha proposto l’integrale in sala da concerto, a Firenze per gli Amici della Musica, e adesso ne ha ultimato la registrazione: nove uscite, l’ultima delle quali è un cofanetto da tre CD con le 58 mazurche più Fantasia, Berceuse, Barcarola, Bolero e i quattro Rondò.

Le Mazurche ci mostrano quanto i piedi di Chopin, malgrado il trasferimento a Parigi, siano sempre rimasti ben piantati nella terra natia, e l’eco delle orchestrine contadine scordate che accompagnavano la danza abbia continuato a risuonargli incessantemente in testa.

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