Nella seconda parte, il Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms con De Maria al pianoforte. E dall’esposizione del tema principe dell’Allegro non troppo i brividi hanno graffiato l’anima. Tutto è seguito di tensione incessante, anche attraverso l’indicibile, sublime rubato del pianista nell’Andante un poco adagio...Il quartetto Fonè, formato dai violini Paolo Chiavacci e Marco Facchini, dalla viola Chiara Foletto e dal violoncello Filippo Burchietti, è mirabile. Due sere fa a Ravenna suonava con Pietro De Maria, che dei pianisti d’oggi è uno dei sommi: ricordo, tempo fa in tv, il suo Preludio e Fuga in si bemolle maggiore dal Primo libro del Clavier Ben Temperato di Bach: da crisi mistica. Con altrettanta grandezza Pietro esegue Chopin e (grazie a Dio!) Muzio Clementi, autore della nostra maggior gloria musicale, mai suonato tante volte quanto merita la sua grandezza.
Insomma, aprivano il concerto l’inaspettato Langsamer Satz di Webern e un Ottavo Quartetto di Shostakovich che, nei tre lancinanti Largo a conchiuderlo, cantava ex imo corde i suoni straziati di dolore del compositore più profondo del Novecento russo. Nella seconda parte, il Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms con De Maria al pianoforte. E dall’esposizione del tema principe dell’Allegro non troppo i brividi hanno graffiato l’anima. Tutto è seguito di tensione incessante, anche attraverso l’indicibile, sublime rubato del pianista nell’Andante un poco adagio, ripreso di suono sempre più d’oro dal quartetto, fino ai sei ottavi del Presto, non troppo nel Finale. Un turbinio tellurico superiore, come non fosse bastato, a quello già spossante dello Scherzo.
Intonatissimi i quattro archi, e d’una cavata così necessariamente prepotente (per l’acustica infelice del palcoscenico dell’Alighieri) che a chi non avesse avuto quella padronanza tecnica avrebbe storto il suono e l’avrebbe reso brutto. Qui, mai. Col pianoforte a tener ognuno abbracciato a sé, insieme, senza cedimenti o tregua; senza protagonismo tecnico, ma anche senza arretrare d’un millimetro dall’asprezze meccaniche sparse in partitura. Fantastico. Grandissimi.
Nella seconda parte, il Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms con De Maria al pianoforte. E dall’esposizione del tema principe dell’Allegro non troppo i brividi hanno graffiato l’anima. Tutto è seguito di tensione incessante, anche attraverso l’indicibile, sublime rubato del pianista nell’Andante un poco adagio...Il quartetto Fonè, formato dai violini Paolo Chiavacci e Marco Facchini, dalla viola Chiara Foletto e dal violoncello Filippo Burchietti, è mirabile. Due sere fa a Ravenna suonava con Pietro De Maria, che dei pianisti d’oggi è uno dei sommi: ricordo, tempo fa in tv, il suo Preludio e Fuga in si bemolle maggiore dal Primo libro del Clavier Ben Temperato di Bach: da crisi mistica. Con altrettanta grandezza Pietro esegue Chopin e (grazie a Dio!) Muzio Clementi, autore della nostra maggior gloria musicale, mai suonato tante volte quanto merita la sua grandezza.
Insomma, aprivano il concerto l’inaspettato Langsamer Satz di Webern e un Ottavo Quartetto di Shostakovich che, nei tre lancinanti Largo a conchiuderlo, cantava ex imo corde i suoni straziati di dolore del compositore più profondo del Novecento russo. Nella seconda parte, il Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms con De Maria al pianoforte. E dall’esposizione del tema principe dell’Allegro non troppo i brividi hanno graffiato l’anima. Tutto è seguito di tensione incessante, anche attraverso l’indicibile, sublime rubato del pianista nell’Andante un poco adagio, ripreso di suono sempre più d’oro dal quartetto, fino ai sei ottavi del Presto, non troppo nel Finale. Un turbinio tellurico superiore, come non fosse bastato, a quello già spossante dello Scherzo.
Intonatissimi i quattro archi, e d’una cavata così necessariamente prepotente (per l’acustica infelice del palcoscenico dell’Alighieri) che a chi non avesse avuto quella padronanza tecnica avrebbe storto il suono e l’avrebbe reso brutto. Qui, mai. Col pianoforte a tener ognuno abbracciato a sé, insieme, senza cedimenti o tregua; senza protagonismo tecnico, ma anche senza arretrare d’un millimetro dall’asprezze meccaniche sparse in partitura. Fantastico. Grandissimi.